L’essenza dell’umanità è la capacità di abitare le relazioni. Come sintetizza lo psicologo Paul Watzlawick, “non si può non comunicare”: il contatto sociale, in tutte le sue forme, è la linfa vitale che permette alle persone di riflettere, amare, crescere e socializzare. Questa capacità è la differenza di fondo tra connessioni umane e connessioni tecnologiche.
Ogni connessione umana è scambio, crescita, evoluzione, perché contiene in sé un’“anima” che permette di entrare in risonanza con l’altra persona, cogliendone motivazioni, sentimenti ed emozioni. Attraverso questa identificazione si rafforzano le competenze necessarie per mettersi in relazione e affrontare la quotidianità – le cosiddette life skills –, utili a livello tanto personale quanto professionale.
La consapevolezza delle emozioni che scaturiscono dalla comunicazione spinge le persone verso il miglioramento e l’esplorazione di nuove realtà, non tutte e non necessariamente positive per il proprio sviluppo.
Cos’è la dipendenza digitale?
Secondo un’indagine pilota sul tema delle dipendenze digitali condotta da Avesani e Piccininno sotto il profilo neuro-scientifico e criminologico, il cervello “insegue” le sensazioni di motivazione, piacere e gratificazione. Gli individui, tendenzialmente, sono alla ricerca di stimoli: più ne trovano e più sentono il bisogno di cercarne di nuovi per sperimentarne il piacere.
Questo desiderio che si autoalimenta genera il rischio di abusi. Il rinforzo positivo generato dal piacere, tanto che il suo oggetto sia una sostanza (psicoattiva, farmaci, tabacco, alcol) quanto un’attività (shopping, sesso, affetto, pulizie, lavoro, sport, internet, gioco d’azzardo, video game), può quindi creare una dipendenza, soprattutto in momenti di debolezza.
Ecco quindi come una situazione positiva può tramutarsi velocemente in una negativa o addirittura nociva. Ciò si verifica proprio nel passaggio da una comunicazione analogica, dove l’“anima” citata all’inizio è inevitabilmente presente in percentuale altissima, a una connessione completamente digitale, in cui la tecnologia agisce da filtro. Debolezze o assenza di punti di riferimento portano spesso la persona a preferire il web alle connessioni umane “offline” per condividere le proprie emozioni. Come rilevato dall’ultima ricerca in ambito psico-patologico di Piccininno e Perrotta, condotta dopo la pandemia da Covid-19 su un campione di 531 giovani di età compresa tra gli 8 e i 18 anni, ciò accade non solo alle ormai iper-sollecitate Gen Z e Alpha, ma anche a chi fa parte delle generazioni precedenti.
Il fattore base dell’ingresso sul web è quindi la gratificazione, che soddisfa il bisogno di compensare alcuni vuoti connessi a traumi (piccoli o grandi) mai risolti.
Da rischio a opportunità: per un uso consapevole della tecnologia
La parola chiave per superare questa situazione è la consapevolezza.
Prendere consapevolezza delle proprie emozioni, fragilità e paure è il primo passo per superare il bisogno di evadere dalla realtà per rifugiarci unicamente in quella online, che può ampliare, con il passare del tempo, l’apatia, la noia e il mancato riconoscimento delle emozioni.
Quando si sente parlare di “uso consapevole della tecnologia digitale” s’intende proprio il passaggio dall’uso di etichette come “buona” e “cattiva” alla differenziazione dei suoi usi sani e meno sani. Questa consapevolezza permette di padroneggiare la tecnologia e gestirla al meglio, sapendo anche decidere quando farne a meno.
Scollegarsi dalla realtà virtuale di tanto in tanto per coltivare l’ascolto di sé e dell’altro e favorire una comunicazione più autentica aiuta a essere più sereni: riducendo gli stimoli, infatti, il digital detox riduce i livelli cortisolo, l’ormone dello stress.
Una mente serena e in equilibrio non ha bisogno di scaricare la tensione emotiva attraverso la fruizione costante di contenuti sui social network o i video game, spesso a contenuto violento, ma riuscirà più facilmente a utilizzare gli strumenti digitali in modo corretto ed efficiente.
L’uso regolare degli strumenti digitali come i video game a contenuto pro-sociale, anche da parte degli appartenenti alle Gen Z e Alpha, permette infatti di ampliare le capacità cognitive superiori, come la memoria, l’attenzione, il ragionamento strategico, il team working, il problem solving e la creatività. In altre parole, aiuta a sviluppare la propria rete cognitiva, emotiva e professionale.
Come trasformare la dipendenza da videogiochi in carriera
Un recentissimo studio condotto su larga scala dal neuroscienziato Adrian Owen della Western University rileva infatti che giocare ai videogiochi, se accompagnato dall’esercizio fisico, può potenziare le capacità cognitive e contribuire a migliorare la salute mentale.
Per questo motivo, con il progetto Dipende da te coinvolgo da anni genitori, insegnanti e soprattutto giovani per condividere con loro l’importanza di non rifugiarsi in schermi vuoti, soprattutto durante le ore notturne, assorbendo modelli comportamentali sbagliati, ma di trasformare l’abuso e la dipendenza digitale in uso consapevole e “mitigato” perché si possa trasformare anche in opportunità professionale.
Facciamo un esempio sintetico ma chiarificatore.
Chi si occupa di orientamento scolastico potrebbe scorgere, nell’attività di affiancamento a studenti e studentesse, una passione dell’allievo/a per il disegno, la scrittura di trame o lo sviluppo di un gioco/videogioco. In quel caso, l’orientatore potrebbe convogliare le sue energie in opportunità di crescita personale e professionale nell’immediato futuro presentando offerte formative per e approfondire la conoscenza di alcuni software specifici e imparare a programmare videogiochi, illustrando le opportunità lavorative del settore di riferimento – ad esempio come game developer, full stack developer o gamer professionista – e consigliando aziende e realtà concrete del territorio in cui candidarsi.
Conclusione
Alla luce di questa riflessione, è importante non guardare ai videogiochi e in generale al digitale secondo una dicotomia buono/cattivo o giusto/sbagliato, ma riuscire a cogliere la scala di grigi che esiste tra il bianco e il nero. Del resto, come sappiamo, è la dose a fare il veleno.

